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Blog ufficiale del Dipartimento di Studi giuridici, politici ed economici del Centro Studi Internazionale Dimore della Sapienza a cura di Ali Reza Jalali, Direttore dipartimentale e Presidente del Ce.S.I.Di.S.
lunedì 16 maggio 2016
giovedì 12 maggio 2016
Islam ed Europa. Intervista ad Adolfo Morganti
A cura di Ali Reza Jalali
La convivenza pacifica
tra i popoli è da sempre una delle ambizioni dell'essere umano, soprattutto in
contesti come quello europeo contemporaneo, dove per via di fenomeni quali la
globalizzazione economica, persone di diversa cultura e religione si trovano a
vivere insieme. Ciò vale soprattutto per le comunità islamiche d'Europa, le
quali tendono ad essere al centro delle attenzioni pubbliche per via di
problemi come l'estremismo religioso, la difficile integrazione nel tessuto
sociale locale e la diffidenza generale nei confronti degli immigrati.
Adolfo Morganti, Presidente dell'Associazione Identità Europea |
Prof. Morganti, lei come
editore (edizioni Il Cerchio) si è spesso impegnato nella pubblicazione di
testi con l'obiettivo di fare chiarezza sul problema islamico in relazione alla
civiltà europea. In che misura pensa di aver ottenuto buoni risultati in questo
senso?
La Casa editrice Il
Cerchio nasce nell'ormai lontano 1980 esattamente al fine di dare vita ad uno
spazio aperto di confronto e di riscoperta della necessità dell'esperienza del
sacro per l'edificazione di una civiltà libera dai cascami della modernità.
Il suo
stesso nome richiama alla ricerca di un Centro, da cui ogni Cerchio nasce.
Benché ognuno di noi avesse in quegli anni riscoperto anche con fatica la
vitalità del grande tronco dell'esperienza spirituale cattolica, con
particolare attenzione ai suoi aspetti monastici e cavallereschi, una costante
attenzione verso le altre grandi Tradizioni religiose ci è sembrata
immediatamente indispensabile: se non altro in quanto l'ampiezza della
battaglia epocale in corso allora come oggi ci pareva tale da non consentire di
escludere il contributo che le altre grandi Tradizioni religiose poteva dare ad
un auspicato contrattacco rispetto alla degradazione postmoderna planetaria.
Lo
stesso strumento editoriale va visto come mezzo rispetto a questo fine. In
quest'ambito, seguendo il coraggioso lavoro di Franco Cardini, abbiamo editato,
ossia dato voce italiana, sia a classici del pensiero islamico dal medioevo ad
oggi, sia a studi di importanti figure del pensiero islamico contemporaneo; per
non parlare di grandi studiosi italiani del mondo islamico come Pio Filippani
Ronconi, di cui siamo orgogliosi di aver ristampato opere altrimenti destinate
all'oblio, e lo stesso Cardini; infine, alcuni giovani studiosi italiani.
Con
la nostra piccola spada, abbiamo punzecchiato al meglio il ventre del drago.
L'Islam oggi non è solo
qualcosa di "esterno" all'Europa, ma orami sembra fare parte, in un
modo o nell'altro, del tessuto sociale del vecchio continente. Quali potrebbero
essere secondo lei le vie per migliorare l'interazione tra musulmani e non
musulmani qui?
L'Europa è un continente
in profondissima crisi di significato. Ogni aspetto della sua crisi sociale,
culturale, politica ed economica dipende - ne sono certissimo, avendo ricevuto
questa coscienza da decenni di precursori che ne hanno inquadrato e previsto
l'implosione, comunicandocene la profezia - da una precedente crisi d'ordine
spirituale giunta alla feccia: l'Europa, oggi, non ha più un senso soprattutto
per gli europei.
Un aspetto tipico di questa apoteosi dello svuotamento di sé è
la paura delle identità altrui, e più queste identità sono ancora forti ed in
parte ancora oggidì integre, più questa paura aumenta.
In tal modo al buon
europeo medio, che non eleva nemmeno il proprio panico al di sopra della difesa
di quanto rimane di una prosperità materiale individuale di piccolo cabotaggio,
per giunta oramai al tramonto, fa paura non solo l'Islam, ma anche l'Ortodossia:
quella russa, ad esempio. E la paura lo blocca, rendendogli impossibile la
gestione di ogni sfida epocale, come quella migratoria.
L'Europa della
postmodernità è, temo, un morto che cammina in maniera irriflessa, e non sarà
certamente sufficiente rivolgersi strumentalmente verso Papa Francesco per
ridar vita a quanto è stato quasi ucciso: ucciso da secoli di cosciente lotta
contro le radici storiche, culturali e spirituali dell'Europa stessa, quella
vera, quella di sempre.
Di contro un'Europa viva, in grado di far propria una
rinnovata fiducia in un progetto di civiltà che sappia riprendere oggi i
capisaldi culturali ed antropologici dell'antica eredità imperiale, sarebbe a
mio parere in grado di relazionarsi con l'Islam (nelle sue differenti articolazioni)
in modo tanto chiaro quanto franco.
Ricordo solamente quanto le relazioni fra
le 3 religioni abramitiche fossero intese e vissute all'interno dell'Impero
Austro-Ungarico, e questo a 100 anni dall'inutile strage della 1° guerra
mondiale, quindi solamente 100 anni fa.
Se la religione musulmana
ha un rapporto con la civiltà europea, sia nel senso di un "incontro"
tra le civiltà, sia, perché no, di uno "scontro", ciò non è di certo
un fatto nuovo, ma ha una sua storia abbastanza lunga. Quali sono secondo lei
le differenze o le similitudini tra il rapporto Islamo-Europeo contemporaneo e
quello, ad esempio, medievale?
Mi riallaccio a quanto
detto sopra. Chi non ha identità (o, peggio, rifiuta la stessa prospettiva di
riscoprirne una) non ha alcuna possibilità di comprendere altre identità; al
contrario, nell'incontro-scontro secolare che dal VII al XVIII secolo ha
coinvolto Islam e Cristianesimo nello spazio del Mediterraneo sono maturate
sfide che hanno reso grande e forte l'Europa e il suo pensiero: ricordo qui
solamente la grandiosa figura del Beato francescano Raimondo Lullo, di cui nel
silenzio più assoluto sta passando il 7° centenario della morte.
La pace e la
guerra vanno quindi colti come momenti differenti di un rapporto culturale e
spirituale sempre profondo e paradossalmente utile per tutti. Di questa
grandezza, che rimane all'interno delle simmetriche caricature degli scontri
fra fondamentalisti islamici e "crociati" del nulla che ammorbano i
mass media di tutto il mondo?
In conclusione,
riusciremo a trovare un punto di incontro, qui ed ora, tra Islam ed Europa?
Fra Islam e Cristianesimo
oggi i punti d'incontro sono certamente più numerosi dei punti di frizione, al
netto delle deformazioni che i vari fondamentalismi (un morbo occidentale che
ha contagiato nel corso del XX secolo molte altre Tradizioni religiose)
producono, supportandosi a vicenda.
Oggi una feconda collaborazione fra Islam e
Cristianesimo ha dinanzi a sé spazi colossali: la tutela della famiglia e del
fondamento religioso della convivenza umana; la risposta alla globalizzazione
economica ed al saccheggio delle risorse del pianeta; la difesa delle identità
concrete.
Spazi assolutamente nuovi in quanto tipici del mondo post-moderno, ma
di una grandezza tale da non far rimpiangere l'immensa grandezza del tempo
delle Crociate: essi annunciano, in fondo, il tempo degli Idoli, che è anche il
tempo della lotta contro il dajjal, l'anticristo della tradizione cristiana.
Si ricorda che Adolfo
Morganti sarà tra i relatori del convegno internazionale sulla figura dell’Imam
Khomeini che si terrà a Roma il 4 giugno 2016 presso Hotel Best Western (zona
stazione Tiburtina). Il convegno è organizzato dal Centro Studi Internazionale
Dimore della Sapienza in collaborazione con Irfan Edizioni, Istituto Culturale
della Repubblica Islamica dell’Iran a Roma, Unione delle Associazioni Islamiche
degli Studenti – Italia, Libreria Raido e Associazione Identità Europea, quest’ultima
presieduta proprio dal prof. Morganti. Per maggiori informazioni potete
contattare la segreteria organizzativa del convegno: dott. Giuseppe Aiello, tel
3297223003.
La crisi irreversibile dell'Islam politico siriano. Il caso dei Fratelli Musulmani
UNA RIUNIONE DEI FM SIRIANI A ISTANBUL |
Ali Reza Jalali
Il conflitto siriano ha
rappresentato per i Fratelli Musulmani una opportunità unica per rientrare nel
panorama politico del paese arabo dopo 30 anni, ovvero da quando Hafez Assad
costrinse il gruppo all’emarginazione politica. Tale formazione fu costituita
da chierici locali sul modello dei Fratelli Musulmani egiziani fondati da
Hassan Al Banna, e negli anni ’50 e ’60 divenne una forza parlamentare. Dagli
anni ’70 in poi però, soprattutto tra il 1979 e il 1982, il partito entrò in
uno scontro con l’egemone Baath, garantendosi così però una legittimazione
rivoluzionaria che ha avuto molta utilità nel rendere i Fratelli Musulmani
siriani un gruppo importante per le rivolte anti-Assad dal 2011 in poi. Nonostante
ciò, il gruppo islamista ha avuto molti problemi nella sua affermazione
concreta, per via di vari motivi. Il lungo esilio ha fatto passare agli occhi
dei siriani il movimento come foraggiato dall’esterno, senza presa effettiva
sulla popolazione locale. Inoltre, la dirigenza del partito è molto anziana, e
non è riuscita ad istaurare un rapporto costruttivo con le nuove generazioni. D’altro
canto, la degenerazione militare del conflitto ha portato alla radicalizzazione
della componente islamista, con l’emersione di altri gruppi più estremisti che
hanno conteso il ruolo di fazione islamica avanguardista all’interno dell’opposizione
anti-Assad. La nascita di fazioni come l’ISIS o il Fronte Al Nusra hanno
rappresentato una opportunità, ma anche un rischio per i Fratelli Musulmani. Da
un lato il discorso ideologico pragmatico, centrista e moderato della fazione,
rispetto alla concorrenza islamista, ha fatto si che i FM potessero essere
foraggiati e aiutati dagli occidentali, diventando cosi il primo interlocutore
ufficiale degli occidentali nell’alveo dell’islamismo politico siriano. D’altro
canto, la concorrenza radicale delle altre fazioni islamiche ha emarginato i FM
tra la popolazione siriana, innescando una profonda crisi ideologica nel
partito.
Il pragmatismo
I FM hanno cercato sin dal 2011
di controllare l’opposizione siriana, ma senza un ruolo troppo esposto,
lasciando maggiore risalto mediatico ad altre figure dell’opposizione siriana,
come dei leader sunniti secolarizzati, dei curdi e dei cristiani. D’altro canto
il vero controllo della coalizione anti-Assad era saldamente nelle mani dei FM,
anche se ciò non era una cosa appariscente. Essi non obbligarono la coalizione
a rivendicare istanze islamiste, ma cercarono pacatamente di controllarne l’operato
dall’esterno. Un’altra mossa dei FM siriani fu l’ingresso nella nuova
coalizione anti-Assad proposta da Obama dal 2012 in poi. Qui inizialmente i FM
furono scettici, ma poi piazzarono alla vicepresidenza un loro uomo e
iniziarono a controllare la nuova piattaforma attraverso una moltitudine di ONG
indirettamente gestite della Fratellanza medesima. Tale politica portò alla
fine alla presidenza dell’ente anti-Assad un uomo dei FM, Ghassan Hitto,
sponsorizzato dal Qatar. Dal 2013 in poi però i FM sono rimasti vittime dei
giochi di potere regionali interni ai governi che sostenevano la ribellione
anti-Assad. Infatti, progressivamente, i FM siriani, fino ad allora saldamente
allineati al Qatar, vedendo tramontare la meteora dell’Emiro di Doha, grazie
anche alla prova di forza dei sauditi nel fare fuori tramite Al Sissi i FM
egiziani, hanno deciso di tenere una posizione più bilanciata nei confronti dei
sauditi, e alla fine nel 2014 andò al potere nella piattaforma anti-Assad, un
uomo sempre dei FM, ma sta volta più vicino ai sauditi. La dirigenza dei FM
siriani in quell’occasione disse apertamente che non era nel loro interesse
avere un atteggiamento negativo nei confronti di Riad. Con l’elezione di Ahmed
Al Jarba, uomo dei sauditi, sostenuto anche dai FM siriani, tale approcciò si
concretizzò totalmente. Tale rapporto privilegiato fu poi confermato nel marzo
del 2014 quando i sauditi inserirono i FM nella lista delle organizzazioni
terroristiche, ma risparmiarono i FM siriani, i quali furono molto grati per
tale decisione. Inoltre, nello stesso periodo, fu nominato a capo dei FM
siriani un medico siriano residente a Jeddah, il quale ringraziò i sauditi per
essere il motore del mondo islamico, nonché per essere l’avanguardia musulmana
contro Assad e l’Iran, compiacendosi anche dell’intervento saudita in Yemen.
Un’ideologia moderata
Esiste un rapporto difficile tra
i FM siriani e quelli egiziani; ciò si è visto lungo la storia, ma anche negli
eventi della primavera araba. Infatti, i siriani hanno sempre contestato agli
egiziani di aver sbagliato nel presentare un proprio candidato per le
presidenziali e di preferire un approccio diverso, ovvero quello di muoversi in
una coalizione. Inoltre non sono mancati attacchi a Morsi giudicato, a ragione
o a torto, troppo morbido nei confronti di Iran e Russia, alleati di Bashar
Assad. Un leader siriano della Fratellanza disse apertamente che era triste
sentire Morsi parlare con toni pacati da Mosca, quando i russi, a sua detta,
aiutano Assad a massacrare il popolo siriano. La radicalizzazione di Morsi in
chiave anti-Assad, soprattutto nella fase finale della sua presidenza, con un
appello al jihad contro il governo siriano, invece di essere accolta
positivamente è stata criticata dai siriani, che hanno detto di non aver
bisogno di guerriglieri stranieri per fare la rivoluzione. Certo, una volta
defenestrato Morsi, almeno formalmente, i FM siriani non hanno potuto che
dispiacersi della situazione, ma in profondità la situazione era ben diversa. Tale
tensione tra i due gruppi ha anche radici ideologiche. I siriani sono più
moderati degli egiziani; i primi contestano ad esempio ai secondi di voler
islamizzare le istituzioni e di volere una teocrazia. Non a caso i siriani nel
2013 hanno fondato un nuovo partito politico, il Waad, una piattaforma
ideologicamente molto affine al partito di Erdogan in Turchia, un movimento
nazionalista influenzato dall’Islam che vuole un approccio morbido e
costruttivo con le altre confessioni, che include anche cristiani e alawiti nei
propri quadri. La fondazione del Waad ha segnato molte differenze con l’esperienza
del partito politico dei FM egiziani (Giustizia e Libertà). Quest’ultimo non
era altro che un partito-pupazzo in mano ai FM, mentre il Waad era una sintesi
tra i FM siriani e altre organizzazioni, anche di matrice non islamica, ma
secolare. Tale movimento ha avvicinato anche i giovani, cercando una relazione
armoniosa con varie componenti della società siriana. Tutto ciò però non ha
impedito che nel 2015 nascessero grandi divisioni in seno al neonato partito,
in quanto si è scatenata una dura faida interna tra chi pensa che il Waad debba
muoversi in autonomia completa rispetto ai FM, e altri invece che vogliono che
di fatto il Waad sia la costola politica dei FM siriani.
Il problema delle divisioni
interne
Uno degli attriti interni
principali è quello della diversa visione politica tra la vecchia guardia e il
gruppo giovanile. Tale attrito ha portato ad una scissione dal 2010 in poi;
infatti, una volta constatato che i FM siriani si affidavano ancora alla
vecchia guardia, in pratica quelli che avevano vissuto le vicissitudini degli
anni ’80, provenienti principalmente dalle province di Idlib e Hama, i giovani
del partito decisero di fondare un movimento parallelo, per dare voce alle
proprie aspirazioni. Questi erano provenienti dalla città di Aleppo e avevano
una visione più moderna e riformatrice. Uno dei capi della fazione giovanile,
Ahmed Ramadan, in poco tempo divenne una delle figure di spicco dell’opposizione
siriana. Col passare del tempo e con la crescita del prestigio di Ramadan,
anche all’interno della fazione giovanile si innescarono problemi interni.
Alcuni accusavano la nuova dirigenza di essersi nuovamente, per questioni di
potere, riallineata sulle istanze dei FM. Queste diatribe interne hanno
danneggiato il gruppo giovanile, il quale alle fine ha giocato un ruolo da stampella nei confronti del gruppo
storico, deludendo molte aspettative.
In conclusione i FM siriani
certamente godono di un maggior prestigio storico rispetto alle altre fazioni
dell’opposizione siriana, sia tra gli islamisti, sia in generale. D’altro
canto, proprio per la classicità della sua struttura, sembra esso un movimento
politico inadatto ad avere un ruolo avanguardistico, al di là dei problemi
creati della divisioni interne, nel quadro della situazione siriana attuale,
ovvero uno scacchiere sempre più radicalizzato e militarizzato e sempre meno
adatto al ruolo dei partiti politici classici, più concentrati sul problema di
una transizione mai realizzata, che non di quello che effettivamente è la
guerra in Siria, un incrocio di interessi geopolitici e di interessi tribali e
settari, non gestibili nell’alveo di una struttura partitica novecentesca.
domenica 8 maggio 2016
Moro, Fanfani e la “terza posizione” italiana: il conflitto arabo-israeliano del '67
Ali Reza Jalali
Il periodo della “Guerra fredda”
rappresenta senza ombra di dubbio un campo di analisi privilegiato per gli
studiosi della politica internazionale, per via di una serie di personaggi
politici e di fatti accaduti che attraggono l’attenzione dello studioso acuto.
Per quanto riguarda l’Italia quella epoca vedeva un ruolo particolare per il “Bel
Paese”, ovvero una posizione da un lato privilegiata, cioè quella di “terra di
mezzo” tra il blocco occidentale (al quale chiaramente l’Italia aderiva) e il
blocco orientale, e d’altro canto un ruolo problematico, quello di dover
gestire un precario equilibrio e col rischio di fare la fine del “vaso di
terracotta costretto a viaggiare tra vasi di ferro”, ovvero gli Stati Uniti e l’Unione
Sovietica.
"Aldo Moro, l'Italia e la diplomazia multilaterale. Momenti e problemi" è un libro di Federico Imperato pubblicato da Besa nella collana Entropie nel 2013 |
Inoltre, un altro ruolo da “terra
di mezzo” ricoperto dall’Italia in quell’epoca era la spinosa questione del
bacino del Mediterraneo e del conflitto arabo-israeliano, che vedeva l’Italia
impegnata in una angusta operazione di oscillazione tra istanze
filo-palestinesi, erede della storica missione mediterranea italiana, e fedeltà
all’alleato americano, rectius, all’alleato israeliano. Nell’alveo di
tale ruolo italiano, si inserisce perfettamente l’impegno del governo di Aldo
Moro, in particolare quello che va dalla prima metà del 1966 alla prima metà
del 1968 (terzo governo Moro).
A capo della diplomazia di quell’esecutivo
di centrosinistra si trovava la figura di Amintore Fanfani, uno dei leader di
spicco della Democrazia Cristiana, raffinato studioso, nonché artista. Fanfani
era entrato in politica dopo la caduta del regime mussoliniano, a guerra
terminata, ma la sua relazione col fascismo fu tutt’altro che negativa. Infatti
Fanfani, di formazione cattolica, insegnò per anni in scuole, centri di ricerca
e università durante il governo di Mussolini, e il suo nome lo si ritrova anche
tra i firmatari del Manifesto in sostegno delle “Leggi razziali” nel 1938. Non
mancarono poi articoli scritti sulla rivista “La Difesa della Razza” e aperte
simpatie, anche con dotte teorizzazioni, in difesa del modello economico corporativo
del fascismo, giudicato come un sistema ideale e alternativo sia al liberismo
occidentale che al socialismo orientale.
Fanfani |
Insomma, non certo un
antifascista, tanto è vero che con la caduta del fascismo a Roma, invece di
impegnarsi in Italia nella guerra partigiana, preferì rifugiarsi in Svizzera
dove fece da insegnante per le famiglie italiane sfollate. Al termine delle
ostilità ebbe un ruolo centrale nell’Assemblea costituente, mettendo mano all’art.
1 della Costituzione repubblicana, che definisce l’Italia come una repubblica
democratica fondata sul lavoro (Fanfani era un economista).
Ma torniamo al terzo governo Moro
e al ruolo di Fanfani nel periodo 1966-1968, importante per comprendere il
gioco di equilibrio italiano tra le grandi potenze nella “Guerra fredda” e
soprattutto alla luce della crisi mediorientale, che vedeva contrapporsi l’Occidente
in sostegno di Israele e l’URSS in sostegno dei Paesi arabi. Proprio nel
periodo centrale del terzo governo Moro infatti scoppiò la “Guerra dei sei
giorni” (1967), che vide l’attacco israeliano contro l’Egitto, come risposta
alla chiusura al transito israeliano da parte egiziana nei mari internazionali
a sud dello stato ebraico. Interessanti in tal senso sono le informazioni, i
dati e le analisi che vengono messi a disposizione grazie al libro del
ricercatore Federico Imperato intitolato “Aldo Moro, l’Italia e la diplomazia
multilaterale. Momenti e problemi” (BESA Editrice, 2013, pp. 69-80).
Dalle pagine del libro dello
studioso pugliese emerge una tendenza ambivalente nelle istituzioni italiane di
quel periodo, da un atlantismo ortodosso a forme più equilibrate, una vera e
propria tendenza che potremmo definire “terza-posizionista” o “terza-fazionista”,
all’interno del duopolio USA-URSS, con una seria ripercussione sulla politica
mediterranea del terzo governo Moro. Infatti, sia prima dello scoppio della
guerra del 1967, sia durante il conflitto tra Paesi arabi e Israele, l’Italia
cercherà attraverso la fazione filoaraba guidata proprio da Fanfani di
ritagliarsi un ruolo particolare all’interno del campo occidentale, ovvero
quello di mediatore tra le due parti in conflitto, confidando nel ruolo
moderatore delle Nazioni Unite.
Fanfani incontra il leader egiziano Nasser |
Non è un caso che l’Italia
giudicò negativamente l’idea espressa dai paesi più filo-israeliani del campo
occidentale, soprattutto USA e Gran Bretagna, di allestire una sorta di
coalizione dei volenterosi delle potenze marittime occidentali che dovevano
forzare il blocco navale egiziano ai danni di Israele. Il governo Moro e la
diplomazia nostrana, sotto la supervisione vigile di Fanfani, preferiva un
dialogo costruttivo tra arabi e israeliani, per evitare fino all’ultimo lo
scoppio delle ostilità. Fanfani e Moro, proprio per questo atteggiamento
moderato, che spesso sfociava in un vero e proprio filo-arabismo, in quanto la
dirigenza italiana non valutava negativamente solo il conflitto tra Israele e
Paesi arabi, ma aveva dichiarato più volte che bisognava trovare una soluzione
politica alla questione palestinese, erano spesso accusati di tradimento dei
patti transoceanici e di voler in qualche modo traghettare l’Italia verso
istanze simili a quelle dei Paesi non allineati; a prescindere dalla veridicità
di tali accuse, resta il fatto che durante il terzo governo Moro la parte
filo-israeliana della politica italiana, rappresentata da persone legate ai
repubblicani, ai socialdemocratici e anche ad alcune tendenze della sinistra (ad esempio Nenni), mise in campo il suo potenziale per rassicurare l’alleato
americano (e anche gli israeliani) della fedeltà occidentale e atlantica dell’Italia.
Emblematico in questo senso il
viaggio negli USA del Presidente Saragat, il quale volle tranquillizzare
personalmente Washington delle intenzioni italiane per quanto riguardava la
crisi mediorientale e la politica estera italiana. Gli sforzi diplomatici della
componente filo-palestinese del governo italiano (Moro-Fanfani) però non
riuscirono a fermare le ostilità e gli israeliani, col fondamentale sostegno
occidentale, sbaragliarono le difese arabe infliggendo nel ’67 una dura lezione
alle principali potenze anti-imperialiste dell’area, soprattutto l’Egitto di
Nasser. Circa due anni dopo il suo insediamento, il terzo governo Moro,
ufficialmente “equidistante” nella guerra del 1967, caso raro nel campo
occidentale, andò in contro a un ridimensionamento elettorale, nel maggio del
1968, segnando forse anche la sconfitta di quella tendenza mediterranea e
filo-araba che ciclicamente si presente nelle istituzioni italiane, e che
altrettanto ciclicamente deve scontrarsi col muro della componente filo-occidentale
della politica del “Bel Paese”, con una diplomazia che la geografia e la
geopolitica impone all’Italia, ovvero quello di mediatore tra due mondi, l’Occidente
e l’Oriente, sempre al limite tra lo scontro aperto e una pace armata
facilmente compromettibile.
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